Opinioni Storie e Fatti

Parla come mangi, mangia come parli: anglicismi sotto accusa

Parla come mangi è un modo di dire popolare, una frase che si rivolge a mo’ di rimprovero, avendone confidenza, a chi parla difficile quando non è necessario.

Il significato è chiaro: si deve parlare in modo semplice, come è semplice il nostro modo di mangiare. Qui sta il punto.
In questa espressione, per «modo di mangiare» non si intende come viene portato il cibo alla bocca (con le mani o le posate impugnate correttamente), o il modo di masticare (a bocca chiusa o aperta), comportamenti che di per sé differenziano le persone tra educate e meno, piuttosto si riferisce al tipo di cibo/pietanze nel piatto, cucinato e servito, che ci si aspetta sia semplice, naturale, sano, spontaneamente da cucina tradizionale e casalinga.

Cosicché, il «modo di parlare» dovrebbe uniformarsi a semplicità e naturalezza, lontano da espressioni “forbite” o “in punta di forchetta” o da un linguaggio aulico, dotto, professionale o infarcito di giri di parole come usano spesso coloro che magari vogliono distinguersi o forse per non inimicarsi l’interlocutore con espressioni più dirette.

Fatto salvo il proprio gusto personale per i piatti delle cucine più variamente marcate, stellate, esotiche, d’importazione, e rispettando i grandi passi dell’evoluzione culinaria, veniamo al dunque.
Pazienza per i francesismi della colta cucina italiana, che bisogna ammettere sono di proprietà intellettuale dei cuochi d’Oltralpe già da un paio di secoli, anche se oggi vengono pronunciati alla francese anche i più banali attrezzi da cucina, ben più moderni.
Insopportabile è l’uso, anzi l’abuso, di anglicismi nella descrizione delle attività aziendali specie dei prodotti eno-gastronomici, il settore di cui ci occupiamo.

Come si può mangiare come si parla, se i comunicati e le relazioni intorno all’agroalimentare sono spesso infarciti di parole incomprensibili alla maggioranza degli Italiani, persino ai più smaliziati che pure si informano leggendo articoli, recensioni, qualunque pubblicazione dedicata o a chi l’inglese lo ha studiato a scuola?
Ci si deve dotare del dizionario o del traduttore simultaneo per capire il significato di certi termini importati o clonati dal mondo anglosassone?
Per esempio a me, che l’inglese lo conosco, va di traverso lo stomaco ogni volta che leggo, sfacciatamente senza alcun virgolettato che indichi che le parole sono straniere: buyers, love winners, food, food%beveradge, street food, partnership, meeting, convention, briefing, location, vision, mission, target, known how, background, governance, competitor, tasting, soft, bland, brand, all inclusive. Ce ne sarebbero diverse altre, gluten free o friendly, ma mi fermo qui.

E non mi si venga a dire che sono retrograda o fobica, io amo esprimermi in italiano corretto … almeno finché l’italiano rimane patrimonio linguistico della Nazione Italia. Quando mi diranno che la nostra Nazione non è più sovrana di nulla e che la lingua ufficiale deve essere l’inglese (perché no l’esperanto?), smetterò di tradurre quei termini nei miei articoli.

Maura Sacher

PS: immagine in evidenza trovata nel web, fatti salvi i diritti dell’autore


Grazie per aver letto questo articolo...

Da 15 anni offriamo una informazione libera a difesa della filiera agricola e dei piccoli produttori e non ha mai avuto fondi pubblici. La pandemia Coronavirus coinvolge anche noi.
Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati, in questo periodo, è semplicemente ridotta e non più in grado di sostenere le spese.
Per questo chiediamo ai lettori, speriamo, ci apprezzino, di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di lettori, può diventare Importante.
Puoi dare il tuo contributo con PayPal che trovi qui a fianco. Oppure puoi fare anche un bonifico a questo Iban IT 94E0301503200000006351299 intestato a Francesco Turri

Articoli correlati

Pulsante per tornare all'inizio