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Il mito del km 0

Aumenta la tendenza a cercare prodotti alimentari “a km zero”, nella convinzione siano coltivati in zona, regolarmente di stagione e persino biologici, siano più sani di quelli coltivati chissà dove e con quali sistemi, e si risparmi sul prezzo, anche per la ragione che sarebbero eliminate le “confezioni” (cartoni, cellophan, ecc.), ridotti i trasporti, esclusi gli intermediari.

È sempre più consistente la fascia di popolazione sensibile alla nocività del CO2 che va ad incrementare il livello d’inquinamento a causa sia delle energie meccaniche spese nella raccolta e confezionamento dei prodotti agroalimentari sia di quelle che lo spostamento a distanza comporta. Insomma, l’idea di fondo del consumatore, in sostanza, è di contribuire a ridurre l’impatto ambientale, e nel contempo di scoprire le eccellenze del territorio per valorizzarlo, una filosofia di vita più che apprezzabile.

Un prodotto a km zero è per definizione un prodotto “nostrano”. Nostrano quanto?

La locuzione fa intendere che, per arrivare dal luogo di produzione a quello di vendita e consumo, il prodotto ha percorso il minor spazio possibile. E, dunque, definirebbe tutti quei generi alimentari venduti e consumati nel raggio di pochi chilometri dal luogo di produzione, ossia “dalle nostre parti”.
Sono anche chiamati “a filiera corta”, espressione che intende essi non passino per grossisti o mercati generali per arrivare ai dettaglianti, anzi, siano venduti direttamente dal produttore al consumatore. È, infatti, ciò che succede nei “farmer’s market”,  o “mercati del contadino”, che, per fortuna, ancora si trovano in alcune grandi città, magari un solo giorno per settimana.

Ma proprio questa associazione crea l’ambiguità.

Ora si viene a leggere che anche il raggio di 40 chilometri è considerato “km 0”, ma c’è di più, vengono valutati tali praticamente tutti i “prodotti agricoli regionali”, e, pertanto, a seconda della ampiezza del territorio, anche distanti 150 km, con un viaggio al massimo di 2 ore. Come arrivano al consumatore se non imballati su mezzi di trasporto inquinanti?
E come la mettiamo nelle località a ridosso dei confini geografici, se il prodotto proviene dalla campagna del comune “frontaliero”? A rigor di normativa quei pochi chilometri valgono zero, nel senso di niente.  

Clelia Losavio, una specialista del diritto agro alimentare comparato, nel report «I prodotti agricoli “a chilometri zero” nelle leggi regionali», pubblicato sulla rivista Agricoltura istituzioni mercati, n. 3, 2011, scrive che la “sostenibilità” legata al circuito più breve produttore-consumatore dovrebbe distinguere questo genere di prodotti, mentre tale qualità sembra essere solo una caratteristica alternativa ad altre, ossia all’attribuzione Dop, Igp ‘et similia’, giacché qualsiasi riferimento all’origine regionale dei prodotti sarebbe incompatibile con il diritto comunitario della “concorrenza”.

Insomma, alla fine della fiera, è stravolto il significato originario.
E noi che ci credevamo!

Maura Sacher


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