Ormai si sa l’enogastronomia tira, soprattutto in Italia, a questa materia del sapere si sta concedendo sempre più spazio sia dal punto di vista mediatico che sociale.
Sono, o meglio si credono tutti cuochi, pasticceri, sommelier o critici di settore, bazzicano per le realtà virtuali come TripAdvisor e con le loro recensioni fanno il bello e il cattivo tempo dei poveri ristoratori senza considerare la miriade di casualità che possono attentare alla qualità di un piatto.
Nella mia esperienza di critico ho imparato ad avere pazienza nei confronti di chi sbaglia alla luce del fatto che molti errori che accadono in cucina spesso non dipendono dalla mano umana ma piuttosto da eventi di natura fortuita.
Ma tutti in Italia vogliamo essere addetti al lavoro pur non avendo la benché minima qualifica che attesti questo.
Ecco che allora nasce “Master Chef”, il reality show a marchio Endemol con lo scopo di scovare il cuoco amatoriale migliore della penisola.
È oramai giunto alla sua terza edizione ma il livello di qualità offerto è sempre più in declino, passino le mie opinioni personali sui giudici, vedo un Cracco ancora sulla scia viscosa dell’uovo marinato intento nel mentre a pubblicizzare le patatine in sacchetto, un ruolo più consono a personaggi del calibro, ed è il caso di dirlo, di Rocco Siffredi.
Sai fare le uova in trecento modi diversi ma poi alla fine pubblicizzi mettendoci faccia e firma un prodotto pregno di pernicioso olio di palma, dannoso sia per la salute del consumatore che per quella dell’ambiente in quanto per ottenerlo si radono al suolo foreste prendendo a schiaffi le varie biodiversità del luogo e un cuoco attento alla selezione delle materie prime certe cose dovrebbe saperle.
Per non parlare di Bastianich, volgare, pacchiano e assolutamente legato più al piatto come veicolo di cash (nessuno in ambito monetario e di vendite può dargli torto) che come giudice inappellabile di qualità, tipicità e tradizione, ricordiamoci infatti che il vero giudizio insindacabile lo forniscono i piatti e le chiacchiere stanno a zero.
L’unico dei tre che sembra davvero competente è Barbieri, un attento e genuino conoscitore della cucina sia nella sua veste più casareccia e nostrana che nella sua dimensione più internazionale.
E se è logico pensare che un critico giovane e di primo pelo come me non possa permettersi considerazioni di questo tipo, a sostegno della mia tesi interviene il maestro Gualtiero Marchesi.
Sul magazine online dell’Expo 2015 il cuoco più celebrato d’Italia lascia spazio a uno sfogo senza precedenti, dichiara che i cuochi, quelli veri, devono concentrarsi di più ai fornelli e meno alle telecamere.
Ha fatto tesoro delle parole di Paul Bocuse, ambasciatore della cucina francese nel mondo e padre ideologico della Novelle Cuisine tanto cara a Marchesi:”la cucina francese finirà quando i cuochi italiani si renderanno conto degli ingredienti che hanno”. Niente di più vero.
Ma le materie prime da sole non bastano, serve elaborazione. Ed è proprio su questo punto che lo chef lombardo mette l’accento, molti vogliono stupire ma alla fine che senso reinterpretare quando già le esecuzioni di base escono in maniera mediocre?
Un esempio di questa tendenza a mio parere è un altro reality, questa volta mandato in onda dalla Rai, Il più grande pasticcere.
Qui vedo ragazzi molto giovani che si fregiano di titoli altisonanti come pastry chef o cake designer, ma poi quando i giudici chiedono loro di preparare una crema pasticcera base, i più ottengono un risultato nauseabondo, slegato, in cui non c’è densità e non c’è profumo.
Se è valido il paragone con la musica, un compositore non può nemmeno sognarsi di incidere il pentagramma se prima non ha dedicato la vita all’esecuzione perfetta di opere già scritte, perciò che senso ha dare in mano a cuochi improvvisati le perle agroalimentari della nostra penisola?
Sarebbe come dare uno Stradivari in mano a una persona che non sa nemmeno cosa sia un violino. Perciò tutto questo apre la strada a scenari raccapriccianti: c’è chi non sa sfilettare la sogliola e si mette a piangere, chi lascia il galletto crudo pensando che sia cotto, chi ancora maltratta il riso e la pasta.
Così deve essere il cuoco che vuole crescere, deve propriamente “sbattersi” ore e ore davanti ai fornelli alla ricerca dell’esecuzione perfetta. E solo una volta interiorizzata la tecnica si può procedere dunque alla sperimentazione.
C’è bisogno di serietà e rispetto, ma il vero problema è che non dovremo essere noi critici bacchettoni a imporci sul consumatore bensì vorrei vedere un consumatore veramente esigente, preparato, che si avvicina al nostro mondo con spirito critico, che concepisce la ricetta come una trasmissione storica di saperi e sapori piuttosto che come una fredda pagina web che mi fa fare bella figura con gli ospiti a cena se seguo dosi e istruzioni, che si sappia lamentare con coscienza nei confronti del ristoratore.
La mia preoccupazione è che queste comparsate non solo facciano male alla cucina in sé quanto più alla visione distorta che offrono al consumatore in merito alla materia alimentare: rischiano di non fargli percepire la qualità vera di un prodotto, di fargli pensare che per cucinare bene serva simpatia e bella presenza.
E questo da difensore delle buone cose quale sono, non posso proprio accettarlo.
G. Camedda
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