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Sul CETA decide il Governo o il Parlamento?

Sembra che abbia vinto il Canada, (CETA, concordato di libero commercio tra il Canada e l’Europa definito da molti il “cavallo di Troia” per il TTIP, l’accordo con gli USA, voluto da Obama, in secca da mesi e ripreso se alle elezioni vincesse la Clinton).

Ma è una vittoria di Pirro, perché la Commissione UE, in un documento del 30 ottobre 2016, ribadisce che il CETA “non ha alcuna incidenza sugli strumenti di sostegno a favore di prodotti agricoli contemplati dal diritto dell’UE, conformemente agli impegni assunti”.

Le trattative, alla fine, sono andate in porto, con la firma del premier canadese Justin Trudeau, il presidente del Consiglio UE Donald Tusk, il capo della Commissione Jean-Claude Juncker, e il primo ministro slovacco Robert Fico in veste di presidente di turno dell’UE. ma si tratta di un’applicazione provvisoria del CETA, con tanti ‘se’ e ‘ma’ espressi in dichiarazioni allegate al documento (http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-13463-2016-REV-1/it/pdf), e, comunque, il trattato anche se approvato dal Parlamento europeo, dovrà essere ratificato dai Parlamenti nazionali degli Stati membri. Almeno questa sembrava la procedura.

ceta-480x259Attenzione: dichiarazione a verbale del Consiglio UE: “Se la ratifica del CETA è impedita in maniera permanente e definitiva a seguito della sentenza di una Corte costituzionale o dell’espletamento di altri processi costituzionali e della notifica formale da parte del governo dello Stato interessato, si deve porre e si porrà termine all’applicazione provvisoria”. Ebbene, dove si colloca il nostro Parlamento nazionale, organo ‘costituzionale’ sì ma in quale posizione rispetto alla Corte costituzionale e al Governo?

Il nostro Governo, alias il suo capo, fin dall’insediamento del Ministro delle Sviluppo Carlo Calenda, ha difeso i lavori per l’accordo commerciale transatlantico tra Usa e Ue (TTIP) e sempre costui, portavoce del ‘dominus’, aveva dichiarato “per i vantaggi che porterà, il CETA dovrebbe essere concluso nel più breve tempo possibile, ne andrebbe la credibilità dell’Europa”, mettendo in bocca all’Italia, genericamente, l’opinione.
Dire che l’Italia è d’accordo significa attribuire il consenso alla Nazione, ossia a colui che occasionalmente la rappresenta, non certo al Parlamento.

Non sembra molto ‘costituzionale’ e ‘democratico’ un procedimento di adesione a trattati internazionali senza che uno Stato membro possa intervenire con un giudizio a livello nazionale, voce bene o male rappresentata da un Parlamento.
E dire che la riforma costituzionale su cui andremo a votare il 4 dicembre prossimo ha la presunzione di demandare al Senato delle Regioni la materia in tema dei Trattati internazionali.
Ma ci credono dei creduloni?

Maura Sacher


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