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Resilienza cos’è costei?

La parola “resilienza” è balzata alle cronache con il «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza», il cui acronimo PNRR, che lo riassume, già per sé stesso suscita l’eco del suono onomatopeico della volgare pernacchia.

Ma resilienza che significa veramente?

L’impiego del termine compare nel primo decennio del XX secolo nel campo della tecnologia metallurgica, chiamando “resilienza” la capacità di un metallo di resistere alle forze che gli vengono applicate contro, ad esempio di fronte ad un urto.

All’origine c’è il verbo latino «resilire» nei suoi significati di “saltare, fare balzi, rimbalzare”, e quindi per traslato “ripercuotersi, contrarsi, ristringersi”.

Ricordo i tempi in cui la parola era entrata nel linguaggio del lavoro dei servizi sociali, mutuata da testi più avanzati di psicologia. E già la trovavo strana.

Veniva usata per riferirsi al concetto della capacità di un individuo (adulto o bambino) di fare fronte alle avversità della vita, avendo subito eventi traumatici, di superare uno stress emotivo, e di riorganizzare la propria vita. Una persona paragonata ad un metallo.

Non si poteva continuare ad usare il termine “resistenza”?

E che ci azzecca “resilienza” con il PNRR?

Mi sono letta una gran parte del Piano (269 pagine), nel Sommario e nell’esposizione delle sei Missioni del Piano la parola resilienza non compare.

L’ho trovata in richiamo ad uno dei punti del Regolamento RRF-Recovery and Resilience Facility (Dispositivo per la ripresa e la resilienza) del NGEU (Next Generation EU): “Salute e resilienza economica, sociale e istituzionale”.

Ma non è chiaro niente di come si possa conciliare “resilienza economica ed istituzionale” con la salute nel Piano di Rinascita per l’Italia!
Almeno a me non è chiaro.

Ed ho l’impressione che molti politici se ne sono riempita la bocca senza capire il significato.

Se qualcuno ha idee precise, si faccia avanti, grazie.

Maura Sacher


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