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Pranzare in ristorante con il Coronavirus

Vi ricordate le cenette romantiche in un ristorantino con luci soffuse, le mani che si sfiorano sulla tovaglia, occhi negli occhi sorseggiando un calice di vino, e camerieri premurosi e discreti a servire?

Scordatevele, ora e sempre.

Nella lista delle voglie represse degli Italiani in quarantena da quasi tre mesi, da sondaggi e da chiacchiere sui social, sembra che il sogno preminente di molti italiani sia “una cena fuori”, finalmente.

I comportamenti della gente sono cambiati in tutto questo tempo, ma i bisogni no.
Abbiamo sofferto un po’ tutti dell’isolamento e della solitudine con le distanze sociali a cui ci hanno obbligato per il nostro bene, e abbiamo represso le abitudini di sempre.
Niente Pasqua, niente Messe, niente battesimi, niente feste di compleanno e di nozze, niente cene con amici e aperitivi in centro, niente fine settimana in montagna né nelle seconde case al mare.
Finalmente, dal 4 maggio ci siamo potuti ritrovare tra “congiunti”, anzi rivedere, con la mascherina addosso e a distanza di un metro, senza nemmeno un abbraccio ed un pranzo di contentezza.

Tra poco saremo autorizzati ad andare a mangiare fuori casa.
Sì, ma con chi, viste le condizioni e le regole che il Governo, con i suoi squadroni di esperti, intende formalizzare?

Chi andrà a farsi una cena in ristorante con paraventi di plexiglass sui tavoli, in sale semivuote di tavoli, con il personale in tuta chirurgica, dopo essere passati sotto scanner che misurano la temperatura, con l’odore di disinfettante che appesta l’ambiente e magari ti fa tossire e sternutire perché ne sei allergico, e vieni guardato di brutto?

Le coppie di coniugi e conviventi che intanto si sono cimentati in cucina, mettendo a frutto la fantasia, anche seguendo i molteplici chef e simili che dal web hanno sciorinato ricette, o che si sono fatti portare a domicilio pasti ordinati con lo smartphone?
Le coppie di fidanzati e di amanti, gli aspiranti corteggiatori imbalsamati per due mesi, che vorrebbero almeno toccarsi la mano dopo tanta astinenza?

E i famosi pranzi di lavoro, dove davanti al cibo si stringevano alleanze e si impostavano contratti? Quale manager inviterà la sua autorevole controparte in un locale simile ad un parlatorio carcerario o in cui sia vietata l’introduzione di materiali cartacei giudicati pericolosi veicoli di virus, oppure in cui per parlarsi confidenzialmente sarà necessario un megafono?

I ristoratori bramano tornare a fare i ristoratori, nel senso classico del termine, riavendo una clientela da coccolare con i propri manicaretti e con i gesti gentili di sempre, «perché la differenza si fa dentro un locale», dicono. E gli avventori desiderano tornare ad essere avventori, trattati da habitué, non come possibili “appestati” o “untori”.

Forse i turisti nostrani e i viaggiatori occasionali, capacità di spesa permettendo, che potranno muoversi fuori regione e vorranno visitare finalmente i luoghi delle loro preferenze culturali e gastronomiche? Speriamo almeno questi sì. E, più in là, pure gli stranieri, liberati dalla chiusura delle frontiere, sopportando anche le barriere pur di mangiare cibo italiano.

Eppure tutti dovremmo fare lo sforzo di capire che andare in ristorante significherà contribuire a rialzare l’Italia dal baratro.

Maura Sacher


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