Questa è la storia delle tre scimmiette, raffigurate iconograficamente nei gesti del “non vedo, non sento, non parlo”, che si chiudono gli occhi, le orecchie e la bocca.
È spesso considerata una metafora dell’omertà o quantomeno dell’ipocrisia umana, pochi sanno che si tratta di tre scimmiette “sagge”, statue guardiane del santuario di Toshogu a Nikko, in Giappone, tempio shintoista che risale al 1617.
In verità, sembra che esse rappresentino una saggezza antica, un codice di condotta risalente a più di 2500 anni presso le più antiche civiltà di Cina, India e Giappone.
Si tratta di un invito a non concentrarsi su ciò che è negativo, il male, ma elevarsi a vedere, sentire e dire ciò che di bello illumina la vita.
Tuttavia, il senso comunemente oggi attribuito alle tre scimmiette è inteso come un’esortazione a non impicciarsi negli affari altrui, a chiudere gli occhi per non vedere il male, o dire di non aver visto, a tapparsi le orecchie per non sentire, a coprirsi la bocca per non parlare di ciò che si è venuti a sapere o ciò che direttamente si conosce.
Una regola espressa anche in proverbi come “chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni”.
E così la ritroviamo in tanti fatti di cronaca nera, purtroppo.
Ma anche recentemente in quei fattacci che coinvolgono le toghe e i giornalisti che seguono i casi giudiziari.
Non vedo, non sento, non parlo, però …
Altroché certi parlano! Spifferano tutto o quasi tutto.
Certi non hanno visto, e si chiamano fuori.
Altri non sentono, non hanno mai sentito niente, né letto niente sulle carte.
Risultato? Non si parla del male, non si vuol vedere il male e nemmeno sentire il male, ovvero il marcio! Un marcio stomachevole!
Stomachevole per chi ci capisce qualcosa, e anche per chi non ci ha capito niente di tutti gli intrecci.
È normale tutto ciò in una Nazione civile?
Non sarebbe il caso che “qualcuno” si risvegliasse dal torpore delle sue funzioni puramente rappresentative e facesse un po’ di pulizia, azzerando cariche e incarichi?
Ma senza la consuetudine di latina memoria del «Promoveatur ut amoveatur».
Maura Sacher
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