La concezione che il vino sia il prodotto della vite e frutto delle amorevoli cure dell’uomo oggi sembra solo marginale, addirittura quasi l’occasionale punto di partenza per le successive fasi che portano il succo in bottiglie da smerciare.
Da un lato c’è il contadino, l’agricoltore, che nelle vigne ha trascorso l’infanzia, vivendo le stagioni e assorbendo gli insegnamenti degli anziani, e dall’altro il moderno imprenditore viticoltore, che passa più tempo in cantina che tra i filari o piuttosto alla scrivania, magari incollato all’interfaccia web del circuito wireless di controllo ed elaborazione delle condizioni delle viti.
I primi conoscono pampino per pampino il vigneto, accarezzano gli acini con amore e trepidazione mentre si gonfiano, osservano il cielo e le fasi lunari, riconoscono una ad una le minacce al raccolto, e praticano dal vivo i monitoraggi anche sul comportamento degli insetti impollinatori e delle specie faunistiche ed arboree che insistono sul podere. Ad esempio, deriva da questo antico sapere la presenza di gelsi o altri alberi o piante di rose in testa ai filari.
I secondi si affidano a tecnici, diplomati, laureati, accreditati da master, con competenze acquisite sui banchi e sui supporti informatici, forti nel sapere teorico e fiduciosi nelle capacità specialistiche.
Più che giusto dare ai giovani opportunità di impiego, ma piano con la superbia. Fin che non si arriva sul terreno e non si segue il decorso del vigneto a fianco del coltivatore non si può dire di conoscere la viticoltura.
Il discorso si applica ad ogni tipo di attività agricola. Ho sentito più volte titolari di aziende dire che “la tecnica è forse più importante dell’esperienza”. Ossia, senza tecnologia e innovazione non si va da nessuna parte, non si cresce, non si fa fatturato, non si esporta. Questo è un ragionamento per lo più presente in contesti di grosse realtà consortili, dove prevalgono interessi di profitto e l’investire in marchingegni all’avanguardia e in consulenze, ognuna di specializzazione specifica, porta finanziamenti.
L’innovazione davvero sostenibile dovrebbe essere quella che mette come obiettivo finale l’Uomo e contribuisce alla salvaguardia delle qualità genuine del prodotto finale in tutte le fasi. Dovrebbero essere incentivate le sperimentazioni sul versante fitosanitario, con la ricerca di sistemi più naturali possibile miranti a preservare l’ecosistema. Una condivisione tra la pratica del vecchio contadino e la preparazione dei nuovi tecnici è indispensabile per un “saper fare” che porti per risultato la valorizzazione del fattore umano e dell’ambiente naturale, insieme.
Mi sorge un dubbio: la frase “andare incontro ai gusti del pubblico” non è che nasconda manovre poco sostenibili?
Maura Sacher
Grazie per aver letto questo articolo...
Da 15 anni offriamo una informazione libera a difesa della filiera agricola e dei piccoli produttori e non ha mai avuto fondi pubblici. La pandemia Coronavirus coinvolge anche noi. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati, in questo periodo, è semplicemente ridotta e non più in grado di sostenere le spese.
Per questo chiediamo ai lettori, speriamo, ci apprezzino, di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di lettori, può diventare Importante.
Puoi dare il tuo contributo con PayPal che trovi qui a fianco. Oppure puoi fare anche un bonifico a questo Iban IT 94E0301503200000006351299 intestato a Francesco Turri