Stile e Società

L’abito fa il monaco, anzi il cameriere

Alcuni giorni fa è rimbalzata da Facebook ai media nazionali la lagnanza di una ragazzina, allieva di una Scuola Alberghiera, per aver ricevuto dall’insegnante una nota sul registro per il suo “abbigliamento non consono” al decoro della scuola.

Se la scuola, in generale, ha ancora una funzione educativa, di “formazione” dei giovani alla vita, imparare che gli stessi abbigliamenti vengono valutati e possono assumere un peso in modo diverso a seconda delle circostanze, trovo sia una competenza essenziale nello sviluppo sociale della personalità, una abilità da acquisire per il proprio successo personale.

Tutte le società devono darsi delle regole minime di convivenza per poter funzionare, dalla più piccola (la famiglia) alla più estesa (il gruppo) alla più vasta (lo Stato). In tema di abbigliamento, la storia insegna che l’abito è sempre stato assunto come segno di distinzione, di una comunità, di una categoria, di un ceto. La divisa, ossia la “uniforme”, nasce come caratteristica per palesare una appartenenza.
La libertà personale di esprimersi autonomamente, sacrosanto principio democratico, c’entra poco con il caso in questione. Noi come clienti potremmo mai non storcere il naso nell’essere serviti, in un ristorante che si fregia di stelle, da un giovanotto con orecchini, capelli rasta, braccia tatuate, braghe da rapper, o da una signorina con capelli al vento, scollature vertiginose avanti e dietro, piercing al naso o sopracciglia, jeans strappati o minigonne vertiginose? Per non parlare delle calzature, maschi e femmine con le dita di fuori … non trasmettono proprio l’idea di igiene che tutti vorremmo in cucina ed in un luogo destinato ai pasti.
Esiste qualche gestore che affiderebbe a personaggi così conciati una sala? E gli chef, farebbero mai entrare in cucina individui simili? Ma neanche nelle pizzerie si vede questo!

Troppo frequentemente sale alla bocca l’espressione «l’abito non fa il monaco», certo valeva e vale nei tempi in cui i predicatori non si dimostrano all’altezza di quanto predicano, e si applica alle persone pretenziose che con un look sperano di mimetizzare la loro reale condizione. Invece, nella nostra vita lavorativa e relazionale abbiamo ben imparato come il modo di presentarsi condizioni il giudizio altrui. L’apparenza mostra la sostanza, è il caso di dirlo.

I Regolamenti delle Scuole Alberghiere sono chiari, essi rispecchiano quelle che saranno le aspettative e le reazioni di un’utenza di fronte ad un professionista, il quale deve trasmettere, attraverso di sé, l’immagine del luogo in cui opera e, per estensione, rappresentare l’intera categoria.  

Per questi motivi, gli allievi vengono abituati a rispettare la loro professione, di cameriere o di chef. Fin dai primi anni di corso nei Laboratori devono indossare la divisa dell’Istituto. Per i ragazzi niente barba, al massimo un pizzetto, per le ragazze capelli raccolti, possibilmente tagliati corti. Niente monili e tantomeno appariscenti, mani curate, niente smalto, mocassini e calze neri.

Quando si diplomeranno e si impiegheranno, dal datore di lavoro riceveranno ulteriori direttive su come agghindarsi e sappiano fin da subito che sgarrare potrà costare caro.
Chi si sente stretto in queste regole forse ha sbagliato mestiere.

Maura Sacher


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