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In che mani siamo? Dieci miliardi dell’agroalimentare italiano in tasca agli stranieri

«Le regole del mercato unico ci impediscono di alzare barriere doganali o praticare l’arte subdola del protezionismo non tariffario» aveva scritto Sergio Romano sulle pagine del Corriere della Sera già il 14 novembre 2011, riflettendo sugli ingressi nel mercato italiano delle grandi multinazionali estere, e confessando «questa campagna acquisti ai nostri danni mi getta nello scoramento».

Di fatto, non parliamo dell’incremento delle esportazioni dei prodotti delle aziende italiane piazzati in altri Paesi del mondo, benché molte industrie agroalimentari di casa nostra puntino più all’estero che all’interno ricavando fatturati di tutto rispetto (nel 2013 record storico complessivo di 34 miliardi), o di delocalizzazione della produzione (a vantaggio del risparmio sulle spese per la manodopera), qui si parla della cessione dei nostri Marchi Made in Italy, passaggi di proprietà, vendite delle azioni, fenomeno che pare non si fermi.

Il Presidente della Coldiretti Sergio Marini il 4 luglio a Roma, nel corso dell’assemblea nazionale dell’organizzazione, ha presentato i risultati di un’indagine battezzata “Lo scaffale del Made in Italy che non c’è più” e dati alla mano ha raccontato come in questi ultimi anni «10 miliardi dell’agroalimentare sono andati a finire in mano a stranieri». Decine e decine di marchi storici italiani, dall’inizio della crisi ma ancora molto prima, sono finiti in mani estere senza troppi clamori nei media e nelle sedi governative.
Va bene che nel mondo “c’è fame di Italia” e l’agroalimentare «è un settore in attivo, che esporta nonostante il crollo dei consumi», ma come si può accettare l’escalation nella perdita del patrimonio agroalimentare nazionale, se lo è domandato anche Sergio Marini.

Sergio Romano nel 2011 aveva anticipato la risposta: «le industrie del settore hanno spesso una proprietà familiare, poco attrezzata per la ricerca e il confronto con la concorrenza internazionale, spesso poco incline a entrare in Borsa per raccogliere capitali che ridurrebbero la presenza della famiglia».
È chiaro che, di fronte al settore molto frammentato dell’agroalimentare, la costruzione di una filiera tutta italiana, come auspicata da Marini, che garantisca il legame tra territorio e consumatore finale, è pura utopia se i piccoli produttori non ricevono incentivi.
A che pro lodarli ed evidenziare che in soli 6 ettari (dimensioni di un orto) questi nostri bravi agricoltori sono in grado di «fare un’azienda addirittura esportando» come sentenziò Stefano Vaccari, Direttore Generale del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali al Convegno sulla Vitovska a Trieste dello scorso mese, se in patria non viene loro dato impulso e sostegno?

Sergio Marini ritiene che occorra accelerare «la costruzione di una filiera agricola tutta italiana che veda direttamente protagonisti gli agricoltori», altrimenti il prossimo passo è la chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero con la conseguente perdita di occupazione.

Come ci possiamo stupire se i colori della nostra bandiera vengono miscelati su etichette di merci prodotte a migliaia di chilometri dal nostro territorio e vendute con l’illusione ottica della genuinità italiana? Per contro abbiamo avuto anche latte e prodotti caseari, miele, succhi di frutta e salse col marchio molto nostrano ma proveniente da materie prime non solo importate bensì a volte addirittura confezionate all’estero, e solo recentemente grazie alle normative sulla tracciabilità i consumatori attenti possono apprendere il Paese d’origine.
Insomma, in che mani mettiamo il mangiare e bere dei nostri figli? Ci possiamo fidare?

Maura Sacher
m.sacher@egnews.it


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