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Genere maschile, femminile, neutro con asterisco e stereotipi

La mania di stravolgere la lingua italiana non ha limiti.
Non so se è per mania di una “ideologia di genere”, peraltro in versione distorta, o è sostanzialmente mania di cercare ovunque presunte discriminazioni, perseguendo una visione volutamente falsata della società.

È proprio del femminismo estremo rintuzzare la polemica su un supposto dominio sociale, politico e culturale maschile, e stravolgere anche la lingua e la grammatica in nome dei “diritti delle donne”.

Sono scandalizzata, lo ammetto, alla pretesa di forzare alla “femminilizzare” ogni termine che nella lingua italiana esiste solo al maschile e inorridisco nel sentire e leggere che l’Ordine dei giornalisti o le Università, e persino qualche Comune, adottano decaloghi volti a stabilire regole di comportamento linguistico cosiddetto “inclusivo”.

Sono anche sconcertata che l’Accademia della Crusca, considerata custode di verità in materia linguistica, abbia confermato la possibilità di declinare al femminile le cariche pubbliche coperte da donne. Il che sconvolge anche i Protocolli dei Cerimoniali.

Si può dire ministra, sindaca, e allora perché il correttore ortografico di Google non aggiorna “assessora”, “prefetta” “questora” e sottolinea queste parole in rosso?
Addirittura sarebbe ammessa “questrice” come “Rettrice” per il femminile di “Rettore” invece di “Rettora”: se volete informarvi bene leggete qui.

Ma l’orecchio può sentire questi termini senza stordirsi?

Ci hanno insegnato a scuola (almeno a me) che le parole che indicano i mestieri riferiti alle persone terminano in “-o”, genere maschile, volti al femminile escono in “-a”: operaio/operaia, impiegato/impiegata, postino/postina, contadino/contadina.

Poi ci sono i termini “neutri”, quelli che non cambiano. I “neutri” in italiano possiamo considerare le parole riferibili a mestieri praticati dalle persone che terminano in “-e”, valide per caratterizzare sia il genere maschile che il genere femminile, come giudice, insegnante, revisore, pastore.

La lingua italiana è fluida

La lingua italiana non è rigida, contempla una quantità enorme di eccezioni per ognuna delle terminazioni.
Come infermiere/infermiera, parrucchiere/parrucchiera, dottore/dottoressa, presidente/presidentessa, professore/professoressa, direttore/direttrice, attore/attrice, perché la lingua italiana è “fluida”, e un po’ si infarcisce di termini popolani, di neologismi, di storpiature da altre lingue.

Se la lingua italiana non è immutabile e storpia parole di altre lingue, ad esempio dall’inglese e dal francese, perché la professionista donna esperta di vini non viene chiamata “sommeliera”?
Giacché, in Francia oltre a «sommelier» (m.s.) esiste il femminile «sommelière», visto che la traduzione nostrana fa “sommeliere” al singolare, con “sommelieri” al plurale.

Eccezioni alla semplice regola latina sono i nomi con terminazioni di origine greca: “-sta”, “-ta”, ossia le parole come pianista, atleta, ginnasta, giornalista, pilota, astronauta, che hanno la stessa uscita al maschile e al femminile.

Vorremmo forse che, in nome dell’omogeneità, il genere umano maschile pretendesse che queste parole, con l’uscita al femminile, fossero rivoltate con desinenza in “-o”.

E se qualche uomo volesse avviarsi alla professione di chi assiste le donne durante il parto, lo si chiamerebbe ancora levatrice, o “levatore”?

In sostanza, ogni vocabolo ha una propria desinenza storica, maschile, femminile o neutra, che non connota per niente una mascolinità o una femminilità di genere.

Il nuovo linguaggio con suoni neutri

Sono arrivati/arrivate al punto di inventare uno stratagemma per evitare discriminazioni sessuali, inventando una desinenza linguistica, una definizione unisex, risolto con un banale asterisco “*”.
È ormai diffuso sentir dire “gli studenti e le studentesse”, e doppioni simili, con l’intento di risolvere una presunta superiorità, ovviamente d’origine politica più che culturale, del tradizionale maschile sul femminile nel plurale.
Siccome non è possibile pronunciarlo, al posto di scrivere la pappardella si è adottato l’asterisco.

Esiste anche il suono vocalico neutro, lo “schwa”, per indicare i termini collettivi, in modo da eliminare la predominanza maschile nel linguaggio.

Il simbolo che lo definisce è simile a una “e” rovesciata.
L’Enciclopedia Treccani definisce “un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono”, insomma come un insieme delle vocali (a, e, i, o, u), che si risolve tenendo la bocca rilassata, semiaperta, con sonorità muta.

In conclusione, la lingua italiana è stata sommersa da fanatici stereotipi, i generi sono superabili con artifici linguistici.
Più facile che cambiare mentalità, vero?

Maura Sacher

 


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