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Fulmine a ciel sereno sulla Pernigotti e pure sull’Italia

Pernigotti, il nome più dolce della nostra vita, dopo la parola mamma, quello che non significava solo “un” cioccolatino ma “il” cioccolatino, il Gianduiotto, e poi anche il Cremino o il Torrone morbido, sta rischiando di sparire dall’Italia, dando un duro colpo a centinaia di famiglie e all’economia dell’intero territorio alessandrino.

Come al solito, quando un’azienda italiana viene ceduta ad una proprietà straniera, la nuova gestione prima o poi entra in crisi e, giustificata dalle perdite di fatturato, dalla sera alla mattina decide di sbarazzarsi dello stabilimento sul nostro suolo nazionale, mandando a casa i lavoratori, senza un benché minimo rimorso. L’elenco è lunghissimo e doloroso. Vige la dura legge del mercato. E sempre ci si chiede come mai. Non ci si può abituare a vedere marchi del made in Italy sparire all’estero, vuoi per la delocalizzazione di fasi del processo produttivo vuoi per assorbimento sotto altri marchi, stranieri europei ma anche extra comunitari.

È la Pernigotti oggi il caso alla ribalta dell’opinione pubblica, la storica industria dolciaria nata nel 1860 a Novi Ligure, in Piemonte, provincia di Alessandria, dove ha finora mantenuto la sede e gli stabilimenti. Per cinque generazioni in mano alla famiglia Pernigotti, finché nel 1995 Stefano perde in un incidente entrambi i figli e, senza eredi, cede la società ad Averna, la famiglia siciliana dell’amaro, che nel 2013 a sua volta la vende alla holding turca Toksöz.
Il gruppo familiare turco Toksöz, partito nel 1972 come farmacia, in pochi anni è diventato una solida multinazionale, con interessi in molti comparti, dal farmaceutico all’alimentare e vinicolo.

Alla base della decisione di Toksöz di chiudere la fabbrica di Novi Ligure, secondo le informazioni filtrate all’ultimo ci sarebbero i risultati negativi dell’azienda, che negli ultimi 5 anni – cioè fin dal momento dell’acquisizione – ha perso circa 50 milioni di euro di fatturato, mentre dai lavoratori scesi in piazza per protesta è trapelata una criticità della situazione già sotto la gestione Averna, causa errori di valutazione negli investimenti, non ponderati con lungimiranza o forse anche per insufficienti sostegni finanziari.
«Ci sono stati sì investimenti nel marketing e nel settore pubblicitario, ma non sul fronte produttivo. Lo stabilimento di Novi è stato “dimenticato” – denunciano i sindacati – senza effettuare alcun ammodernamento degli impianti». E così con i turchi nulla o poco è cambiato, nonostante le ambiziose premesse di rilanciare le potenzialità del marchio Pernigotti a competere con le grandi multinazionali del settore, una scommessa di facciata visto che nulla di utile è scaturito.

Questa è la situazione che allarma ancor di più, con l’abbandono dello stabilimento di Novi Ligure e la liquidazione di oltre un centinaio di lavoratori: i proprietari hanno manifestato l’intenzione di mantenere in Italia soltanto la rete marketing per le vendite, spostando la produzione totalmente in Turchia, mantenendo però il marchio Pernigotti, che sarebbe diventato turco.
Tuttavia, grazie ad una pronta mobilitazione, l’interessamento per le sorti dei lavoratori e dello stabilimento Pernigotti è arrivato al MISE e la questione è in calendario per il giorno 15 novembre prossimo.
Nel frattempo, Toksöz sembra fare un passo indietro, con una nota in cui si legge: «in riferimento alle notizie pubblicate sulla società a seguito dell’annuncio della chiusura delle sole attività dello stabilimento di Novi Ligure, è intenzione dell’azienda dare corso all’esternalizzazione delle proprie attività produttive unicamente presso il territorio nazionale».
In pratica, la società ora intende individuare dei partner industriali in Italia, a cui affidare la produzione, delocalizzando comunque fuori di Novi Ligure.

Qualcuno ritiene che se almeno i Gianduiotti fossero stati registrati come indicazione geografica protetta, e non solo tra i prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) piemontesi, oggi la situazione forse sarebbe diversa, in quanto le registrazioni DOP e IGP vincolano rigidamente la produzione all’area indicata nel disciplinare.

Non resta che aspettare il tavolo di crisi del prossimo 15 novembre presso il Ministero, confidando nell’unità degli intenti delle forze di governo.

Maura Sacher


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