Tribuna

Buon appetito si dice o no?

Questa è una delle questioni “esistenziali” che arrovellano le menti delle persone e ad un certo momento emergono, perché qualcuno ne fa problema di etichetta.

Questione controversa.
L’argomento nei vecchi manuali di galateo è ignorato e basterebbe questo per capire che non rappresenta un problema. Invece nella miriade dei manualetti degli ultimi tempi (anche di autori in rete che si copiano pari pari) l’espressione viene caldamente sconsigliata.
«È augurio da non pronunciare» si afferma categoricamente, cosicché se ci scappa ci sentiamo cafoni, inadeguati, ignoranti in fatto di buone maniere. Infatti, c’è sempre qualcuno a bisbigliare «Ma, si dice o non si dice?», quasi fosse una faccenda di Stato. Altri, invece, scrivono «è buon costume augurare un buon appetito all’inizio del pasto».

Quando nasce l’espressione?
Sulla sua origine ci sono solo supposizioni di alcune fonti, non certezze storicamente attendibili. Forse è plausibile – come sostiene qualcuno – che risalga al tardo Medioevo con il ritrovato piacere delle “buone maniere” nella società di corte. Ma nel corposo trattato di Monsignor della Casa non c’è traccia del profferir di questo augurio come raccomandazione per il comportamento dei commensali.
È opportuno cercare di capire il significato del detto. Come è noto, nel lontano passato il pasto completo, con più portate, era riservato ai banchetti nobiliari con molti invitati, tuttavia in particolari momenti, quali un ricco raccolto dei campi, festività religiose, nozze oppure altri particolari festeggiamenti a palazzo, alla servitù o al contado venivano offerti dei lauti banchetti in piazza. In tali circostanze, è lecito ipotizzare che il maggiorente augurasse al popolino di ben godere del pasto offerto, cosicché l’espressione è rimasta legata al concetto di un favore elargito agli inferiori.

Allora non si dovrebbe dire?
Il pasto nella nostra società consumistica non è più considerato un evento eccezionale, un’occasione per sfamarsi, pertanto non è ritenuto pertinente augurarsi a vicenda di soddisfare l’appetito. Come a dire che il primo che esclama «Buon appetito!» tra pari riuniti alla medesima tavola odierna mancherebbe di rispetto agli altri, l’augurio suonerebbe come una larvata offesa ai presenti. Tanto più se la pronuncia per primo uno dei padroni di casa ai propri invitati. E non è buona creanza àuguri “buon appetito” alcuno degli altri commensali.

Che fare?
Accettiamo pure non si dica “buon appetito” nelle situazioni molto formali, dove si devono davvero osservare i canoni dell’etichetta, dove vige la regola della compostezza, come dobbiamo accettare non si pronuncia “cin cin” nel brindisi e non si tintinnano i calici o non si esclami “Salute!” quando uno sternutisce.
Anche se in famiglia l’usanza rimane e a tante persone non pare bello iniziare a mangiare senza scambiare quell’auspicio, in presenza di ospiti la questione non deve essere posta in termini melodrammatici, nessuno si offenda, la prenda come una “tradizione”.
E se in un ristorante è il cameriere a dire “Buon appetito”, la buona educazione impone di rispondergli con un “grazie”.
In conclusione, è molto più maleducato far notare che non si dice o restare in silenzio, piuttosto che rispondere con un sommesso «anche a te!», unito ad un bel sorriso, un atto di cortesia che non costa nulla.

donna Maura


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