Tribuna

Anguria o cocomero a tavola?

Il frutto che più si associa all’idea del dissetarsi nella calura estiva, con la sua dolce rossa polpa ricca di acqua (92%) è l’anguria o il cocomero?


In un recente format televisivo, dei tanti che si occupano di culinaria, di consigli medici sulla nutrizione, di diete, c’è stato un simpatico battibecco sul “vero nome” di quella meraviglia della Natura raffigurata nell’immagine qui accanto.

È vero, entrambi i nomi sono corretti, sono varianti regionali, ma quello che è sfuggito alla contesa è che i termini cocomero, dal latino «cocumis-cocumeris», e anguria, dal tardo greco «angurion», significano “cetriolo” e lo stesso cetriolo in Grecia veniva chiamato cocomero e come tale lo citò Virgilio. È risaputo che nelle regioni del centro-sud Italia è conosciuto come cocomero e anguria nel nord, dove – a complicar le cose – il termine cocomero o meglio “cocumer(o)” è invece riservato al cetriolo, “cucumis sativus” (anche in francese cetriolo si dice “concombre”).

Ma la confusione non finisce qui: nel Meridione il cocomero è anche chiamato “melone” o meglio «Melone d’acqua» (come in inglese «Watermelon»), mentre al nord “melone” è il melone (in inglese “melon” o “muskmelon”).

Inoltre esso, il «Citrullus lanatus», non sarebbe propriamente un frutto, perché in botanica è considerato un ortaggio, della famiglia delle Cucurbitacee, piante a fusto strisciante, dunque stretto parente oltre che del cetriolo anche della zucca e delle zucchine, e così pure il melone.

Originariamente proveniente dall’Africa Tropicale, Alto Nilo, era già noto agli Antichi Egizi e una abbondante raccolta è documentata in un geroglifico del 3000 a.C. Spesso veniva deposto nelle tombe dei faraoni come nutrimento per l’aldilà. Intorno all’anno Mille arrivò in Cina, dove si iniziò la coltivazione, tanto che attualmente la Cina ne è la maggior produttrice mondiale. La pianta venne introdotta in Europa solo con le Crociate.

Come si mangia l’anguria-cocomero?

La polpa può entrare deliziosamente in una macedonia, a quadratini o a palline, sopra un gelato, servita in coppette, anche aromatizzata con un liquore dolce, e gustata col cucchiaino da dessert. Se invece viene servita sul piatto una fetta con la scorza, sono necessari forchetta e coltello con i quali si ricavano pezzetti di polpa da portare alla bocca uno alla volta; i semi vanno tolti con la punta del coltello, ma se eventualmente ce li trovassimo in bocca, in linea di massima dovremmo seguire la regola che impone che qualunque cosa portata alla bocca con la forchetta e non deglutibile si deposita sulla forchetta stessa e poi da questa nel piatto, ma io ho visto qualcuno avvicinare il coltello alle labbra e trasferirvi i semi. Forse perché sarebbero sfuggiti tra i rebbi della forchetta? Tuttavia è lecito raccoglierli nell’incavo del pugno (come i semi dell’uva), senza emettere certi suoni tipici, per poi depositarli nel piatto con movimento semplice e naturale.

Non è prudente cimentarsi a tagliare la scorza nel suo spessore per accorciare la fetta, ne va dell’equilibrio del resto e poi non ha senso. Non è salutare raschiare la polpa residua aderente alla scorza perché lo strato bianco non è digeribile. Alla fine le posate vanno riposte, allineate, sul lato destro del piatto.

donna Maura


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