Mentre al Brennero iniziava la protesta di agricoltori e allevatori, promossa dalla Coldiretti contro l’importazione di carni estere che, lavorate sul suolo nazionale vanno smerciate per italiane (due prosciutti su tre venduti Made in Italy sono fatti con maiali allevati all’estero), in sede di Comunità Europea era in discussione la questione dell’etichettatura d’origine della carne di suini, ovicaprini e pollame.
Agrinsieme, il coordinamento nazionale tra Cia, Confagricoltura e Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, si dichiara non soddisfatto del Regolamento comunitario portato all’approvazione della Commissione, e che modificava la precedente normativa (1169/2011), al fine di semplificarla. Ovvero: di “snellire” in etichetta la fornitura di informazioni ai consumatori sugli alimenti, renderla meno “complessa”, alla lettura, ma anche meno onerosa (si sa l’inchiostro costa e anche il tempo di chi deve digitare un paio di tasti in più – NdR).
Il regime di nuova etichettatura dei prodotti agroalimentari dal 1° aprile 2015 andrà in applicazione alla commercializzata di carni suine fresche, avicole e caprine, sia originarie all’interno di qualsiasi Paesi della Ue, sia importate da Paesi extra-comunitari, macellate in una qualunque regione della Comunità, purché arrivate come bestie vive.
In pratica sull’etichetta del prodotto venduto fresco sembra debba essere riconosciuta la dicitura minima della sua carta di identità: nazione di nascita e quella di morte.
Le associazioni del settore, unitamente agli esperti dell’agroalimentare, avevano chiesto, sollecitando l’attenzione del Ministro De Girolamo e del Parlamento, che fosse indicato anche per questo tipo di alimento, al pari della carne bovina e del pesce, la nazionalità del “nato – allevato – macellato – sezionato” per evidenziare tutte le fasi di trattamento di quella carne suina, ovicaprina, pollame che il consumatore si accinge ad acquistare.
Se, invece, ci si ferma alle sole diciture “allevato-macellato”, è possibile che un esemplare nato in Turchia o Romania, per esempio, o in Spagna o Argentina, trasferito in Italia e ivi nutrito per un paio di mesi per arrivare con il giusto ingrasso al macello, acquisterà legalmente la cittadinanza italiana e in tal modo l’etichetta potrà riportare “allevato in Italia – macellato in Italia” e tutti i consumatori crederanno sia un bell’esemplare del nostro clima.
Confagricoltura aveva chiesto che l’origine fosse assegnata in corrispondenza di minino sei mesi di allevamento, non solo i quattro previsti dal Regolamento, affinché sia rispettato almeno il criterio di prevalenza della durata del ciclo.
Sarebbe troppo sperare nella cosiddetta “etichetta narrante”, come si sta attuando per il vino o l’olio, onde fornire informazioni sui produttori, le aziende, le razze impiegate, le tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sui precisi territori di provenienza, e su altri dati di agricoltura biologica o biodinamica.
Maura Sacher
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