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Adesso ci manca la campagna sul tetto

Ho letto di tutto su quanto visionari architetti hanno ideato e fatto realizzare sui tetti e sui balconi degli edifici, per esempio l’apicoltura sui tetti, orti in terrazza, giardini e aiole su coperture condominiali, prati in parete, e così via.

Una progettazione ammirevole se finalizzata per sopperire alla generalizzata, e a volte scellerata, eliminazione di alberi pluridecennali d’alto fusto nelle vie centrali delle grandi città, e di conseguenza per migliorare il microclima cittadino.
Tanto più lodevole, a fronte del criticabile dilagare della cementificazione a discapito di terreni agricoli e boschivi.

Tutti interventi da ritenere utili nell’apportare vantaggi nella gestione energetica dell’edificio e soprattutto delle abitazioni che si trovano direttamente interessate, in quanto ritenuti migliorativi dell’isolamento termico. Come il “Bosco verticale” di Milano.

Del resto, lo sviluppo sostenibile è il tema principale del business del prossimo futuro, tanto che è entrato nelle Agende dei Governi di tutto il mondo come processo socio-ecologico imprescindibile. E vi rientrano pure gli ecobonus previsti dal Decreto Milleproroghe del nostro passato governo.

Tuttavia, fa non poco riflettere la convinzione che l’idea di “fattorie verticali”, secondo i promotori con il proposito di sopperire i limiti delle coltivazioni tradizionali, «favoriscano l’occupazione locale, la valorizzazione del territorio» e pure «facilitino il controllo sulla qualità del prodotto riducendo costi di filiera e relativi sprechi di scarti organici fino al 98%».

Il trasferire in edifici metropolitani quello che da millenni si fa in aperta campagna rischia prima di tutto di causare un declino del nobile mestiere del contadino, già oggi abbastanza in difficoltà, e non vedo in quale modo possa favorire l’occupazione se non prospettando un progetto di formazione di nuove professionalità.

Ben venga una nuova generazione di tecnici, diplomati e laureati, che si dedichi alla cultura agricola, ma se il futuro della nostra alimentazione deve dipendere da scienziati che ci producono frutta e verdure in laboratori hi-tech, illuminati da lampade a led e ventilati con aria condizionata, e pure vantandole a “chilometro zero”, dove i nuovi “contadini” indossano camici bianchi e guanti sterili, io veramente sono sconcertata. Chi va a lavorare sulle pareti o sui tetti?

Con tutto il rispetto di questi idealisti promotori che, sulla scia di tendenze visionarie già realizzate in altri Paesi, dalla Svezia al Giappone, stanno per stendere una proposta da mettere sul tavolo del nostro Ministero delle politiche agricole, mi domando se questa innovazione – concepita nell’ottica delle politiche della “new green generation” – non vada piuttosto a sottrarre braccia e risorse nel tradizionale comparto agricolo tradizionale?

Sarà questa la de-crescita felice?
Che forse i cittadini si debbano trasformare in agricoltori?

Maura Sacher


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