
Qualche settimana fa mi domandavo se dovessimo sperare nella vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa per essere tranquilli che il TTIP sarebbe stato affossato per sempre. E questo perché la concorrente Hillary Clinton, nella sua campagna, aveva rassicurato Obama, corso a sostenerla, che lei avrebbe rappresentato la “continuità”.
Una svolta inattesa: la Clinton ha fatto marcia indietro, fiutando che anche per lei era importante quella fetta di opinione pubblica e di grandi elettori, persino membri del Congresso ed economisti di fama mondiale, che da tempo contestavano la convenienza dei trattati internazionali sul libero scambio e riduzione dei dazi, voluti da Obama, e tenuti altamente top segret (e ciò di per sé già poco in linea con gli intoccabili valori di “democrazia” e “trasparenza” del popolo americano).
Così, giocando la carta della preoccupazione popolare per la crisi occupazionale della classe lavoratrice, alla quale evidentemente sta più a cuore il problema della concentrazione del potere nelle multinazionali piuttosto che le questioni della sicurezza alimentare, si è verificato che entrambi i candidati si sono trovati a condividere il dissenso non solo sul TTIP (ancora in ballo con l’Europa) ma anche sul TPP (tra Usa, Giappone, Canada, Australia e altri otto Paesi del Pacifico) già firmato, e tutta la serie di trattati correlati e non insignificanti, contestando persino il CETA, l’accordo tra il Canada e l’Europa, che ha già i suoi problemi sul versante della formalità di approvazione.
Sul fronte europeo, da tempo non pochi degli allora 28 paesi membri (dal Nord Europa al Sud, tranne l’Italia), avevano manifestato diffidenze e preoccupazioni. La Francia si era decisamente tirata fuori, mentre la Germania vacillava, nonostante oceaniche manifestazioni di popolo (allo slogan di #STOPTTIP), contro il TTIP definito anti-democratico e rischioso per gli standard ambientali e alimentari, con buona pace dei nostrani creduloni sulla protezione delle denominazioni tutelate.
Il Vice Cancelliere tedesco e Ministro dell’Economia, il socialdemocratico Gabriel, l’altro giorno, ha dichiarato che i negoziati tra Ue e Usa sul trattato di libero scambio (TTIP), dopo ben quattordici round negoziali, sono ormai “di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richiesta americane”, sottolineando come ormai “non ci sarà più alcun passo avanti”. Insomma, il braccio di ferro è finito ‘pari e patta’.
Pronta la Cancelliera Merkel, finora barcamenatasi con i rappresentanti dell’Italia e con Obama (vedi l’incontro di aprile di quest’anno), ma anche con le contestazioni nel suo Paese, a far sapere che non è proprio così, a Bruxelles si sta ancora studiando e negoziando. Infatti, qualcuno della Commissione di Bruxelles insiste nel dire che “i colloqui procedono” e l’intento non viene abbandonato.
Si ha la nitida impressione che “Smog get’s in your eyes”.
È pia illusione o forte speranza ritenere possibile, invece, che il giocattolo di Obama si frantumi entro la fine dell’anno, ovvero entro l’8 novembre, data delle elezioni negli USA?
Maura Sacher
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