Tribuna

L’osteria che non c’è più …

Il ‘900 ha visto la fine, lenta ma inesorabile, delle osterie. Le recenti trasformazioni sociali che si sono immancabilmente accompagnate alla modernizzazione, hanno tolto peso e funzione a questi luoghi collettivi che avevano avuto un ruolo essenziale nella vita dell’Italia contadina dell’ottocento e della prima metà del ‘900, quando l’osteria che nel ‘700 era stata ritrovo di artisti e di patrizi non sdegnosi del contatto col ceto popolare,
dentro un ambiente pulito e dignitoso, era venuta degenerando in uno stanzone affumicato, oltre che dai fumi di cottura, dal sempre maggiore consumo del tabacco, importato due secoli prima dall’America: luoghi assolutamente non frequentabili da persone di buon gusto.
L’osteria, dunque, nacque come luogo di mescita e rivendita di vino, dove l’oste, padrone o gestore, dietro al banco spillava vino dalle botti, lo travasava in boccali o caraffe, e lo versava nei bicchieri a consumo che veniva richiesto dagli avventori del locale.

Da qui divenne luogo d’incontro, scambio, spazio multifunzionale per il gioco delle carte, la ricreazione, l’informazione, lo sport e l’immancabile politica: tutte queste “attività” gravitano attorno al vino che era il centro solare, e gustativo, della situazione. Bettole, spacci, taverne o altro che fossero, secondo una gerarchia non scritta, ma fissata dalle frequentazioni, avevano una clientela assidua, fedele e ben disposta a soggiornarvi lungamente.

Alle osterie stabili, cioè attive in un locale più o meno grande, ed altrettanto più o meno presentabili e rispettabili, si aggiungevano quelle “stagionali” che erano gli spacci domestici nelle campagne, autorizzati in vari luoghi, fino ad esaurimento del vino prodotto nel vigneto di casa: chiamate “frasche” nel Veneto, “osmizze” nel Carso, e tanti altri sinonimi tipici del luogo di produzione. Facilmente identificabili, in quanto esponevano all’esterno un tralcio di vite con alcuni grappoli, memoria di un’antica tradizione latina in cui il tralcio annunciava lo “spaccio di vino”, solitamente vino nuovo. Nelle regioni meridionali, era consuetudine esporre un drappo, a mo’ di bandiera, bianco o rosso, a seconda che in tale locale si vendesse vino bianco o rosso.

Tradizionalmente, il bevitore di osteria pagava un tanto fisso all’ingresso, acquistando il diritto di bere fino alla sazietà. Occorre dire però, che non si agevolava in alcun modo la sosta: niente seggiole e tavoli, eventualmente una dura panca senza schienale, così che la clientela era sollecitata a lasciare presto il posto ai nuovi avventori. All’oste competevano la scelta e lo spaccio del vino da consumare in loco o da asporto. A volte offriva agli avventori anche il companatico, la bettola non lo faceva, e l’uso di cucina si estese in molti centri urbani e nei borghi dove il transito, le poste, i mercati lo richiedevano.

La tipologia dei cibi era ben precisa: grandi porzioni, prezzi bassi, pochissima scelta e uno o, al massimo, due tipi di vino. Ne nacque un’offerta indirizzata su alcuni piatti: le fettuccine a Roma, la costata a Firenze, la salsiccia in Emilia, castrato e pancetta in Romagna, per  fare alcuni esempi, apprezzabili anche da avventori borghesi, per il pregio di ricordare loro una cucina casalinga, enfatizzata dalle porzioni, dai condimenti, dalle particolari cotture, dall’atmosfera, resa calda ed accogliente dal fuoco del camino o del braciere.

Le vecchie osterie assomigliavano quindi, almeno nel servizio, alle moderne trattorie ed a volte a locande quando, al loro interno, ai piani superiori si poteva trovare anche da dormire. Oltre al vino, alla cucina e al letto, l’osteria spesso possedeva spazi all’aperto: pergolati ricoperti di frasche, da piante rampicanti o la stessa vite, dove fermarsi a desinare, ma anche sfidarsi al gioco delle carte, a dadi, a scacchi o alla morra. Molte avevano anche piccoli rettangoli recintati adibiti al gioco delle bocce: poi sono arrivati i bar, i pub, i circoli ricreativi, le bocciofile ed è iniziata la lenta fine delle osterie.
Alcune ancora sopravvivono, soprattutto nei piccoli centri, come rarità o come ritrovi ristrutturati ed eleganti per la nuova socialità giovanile. Ed è, appunto, profondamente cambiata non solo la clientela: i vecchi, i giocatori di carte o di bocce, i tribuni della politica, sono completamente e inesorabilmente scomparsi, ma anche il servizio, la tipologia e la qualità di quanto viene consumato dai nuovi avventori, poichè in menù si trovano solo stuzzichini freddi, salumi e formaggi, anche di ottima qualità, birre, principalmente estere e vino in bottiglia o, in rari casi, anche serviti al bicchiere.
Pier Luigi Nanni


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Redazione

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