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Il grande Lunapark lombardo

No, non mi va proprio giù, più guardo i servizi tv dall’expo e più mi ribolliscono i sentimenti, e non sono l’unica, perciò posso scrivere questo editoriale, perché scorre in diversi benpensanti l’idea che l’Expo italiana è frutto della vacuità.

Un sincero plauso all’ingegno creativo dei progettisti, italiani e internazionali, compensati profumatamente, per le gigantesche costruzioni in vetro, legno, alluminio, che a volte sembrano sfidare le leggi della gravità, nonché per le architetture all’interno dei grandi contenitori che, in verità, non contengono altro che spazi, cioè il vuoto. Vuoto che si anima solo al passaggio dei visitatori, sui quali – a sentire alcuni – incombe un angosciante senso di spaesamento e di solitudine, non fosse per le musiche di sottofondo, o per il rimbombo di messaggi e annunci che fanno ricordare la ragione per la quale si trovano là.

Non è un critica a sua volta “a vuoto”, e per i risultati di questo immane sforzo, che è di tutte le Esposizioni Universali, aspettiamo i mesi successivi alla chiusura, ma già sappiamo quali saranno: un bombardamento di cifre sul numero dei visitatori, suddivisi per nazionalità e categoria sociale, le presenza alle singole manifestazioni che ogni giornata dei sei mesi si saranno svolte, le tabelle sulle preferenze ad analisi delle risposte ai questionari, il volume di business delle singole aziende presenti, l’impatto sui mercati esteri, insomma nulla di più di quanto si fa dopo ogni fiera.

È stato sottolineato che l’Expo non è una fiera, non ha carattere commerciale e dovrebbe servire a promuovere un tema d’interesse generale con particolare attenzione all’innovazione e alla tecnologia. Ah sì? Però, alla Biblioteca del vino si può comperare la bottiglia di proprio gradimento e portarsela a casa. E riguardo al tema d’interesse generale, c’è materia per altri articoli, ma soprassediamo.

L’Expo non è, forse, una fiera, ma un grande Lunapark è di sicuro, al momento il più grande d’Italia.

Tra conferenze “ad usum delphini”, spettacoli di danza, concerti con i nomi di grido e non per beneficienza, figure da Disneylandia che compaiono e scompaiono a orario, illuminazioni fantasmagoriche e persino programmi di spettacoli pirotecnici, c’è folklore un po’ dovunque, e magari i rappresentanti delle Nazioni e delle Regioni fossero tutti vestiti con i costumi tradizionali locali, sarebbe occasione di cultura.
Invece prevalgono le “arti visive”, la tecnologia multimediale, è l’era del web 3.0 la vera protagonista di questa Esposizione Universale 2015, che – per come la sto vedendo – ha poco da informare su come “Nutrire il Pianeta-Energia per la vita”.

Oggetti che si materializzano su schermi giganti ad un “touch” del curioso visitatore, paesaggi e campi e coltivazioni virtuali, mega quadri che scorrono, distanti anni luce dal presente.
Aromi sottovetro, onde di lumini che oscillano e mutano colore, fingendosi fiori o farfalle, reti che si muovono sotto i piedi e fanno vedere sotto una campagna, fili che pendono e simulano pampini d’uva, suggestivi percorsi impostati con la finalità di far apprezzare i prodotti attraverso l’olfatto e il tatto.

Ma dove sta la realtà del “cibo per tutti”? Altrove, di sicuro.

Maura Sacher


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