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C‘era una volta il prosciutto cotto…e invece no!

A “La Gabbia” su La7: ”55 milioni di cosce arrivano dall’estero, in Italia prodotti solo 15”. 
Si sdogana per l’ennesima volta, ed è proprio il caso di scriverlo, l’origine di un prodotto senza senso storico. Dal nulla si generano tensioni tra allevatori locali e grandi trasformatori grazie anche all’Europa che tace e acconsente.

Questo sarebbe uno di quei discorsi da prendere alla lontana, affidandosi al puro senso della tradizione ma purtroppo quando si tratta di prosciutto cotto, l’ossatura storica vacilla (eccezion fatta per la spalla cotta di San Secondo che è prodotto affine ma al contempo totalmente diverso).
E’ uno di quei classici esempi in cui una ricetta apprezzata dalla massa si trasforma in un prodotto di pronto consumo.

Dalla massaia che passa ore davanti al forno a cuocere la spalla o la coscia di maiale all’impiegata, sempre di fretta, che il prosciutto cotto sì lo vuole ma non ha il tempo di starvi dietro.
 Ecco svelata una delle più importanti regole del marketing: concepire un bisogno insoddisfatto, cominciarono così a inventarsi l’azienda che cuoce il prosciutto.

Ma da buongustaio verace quale sono, non posso assolutamente lasciar passare inosservati i pesanti strascichi che queste malsane scelte consumistiche arrecano. Si tratta di qualità, perché a giocare a fare Dio prima o poi qualche conservante lo dovrai utilizzare.

Il nucleo del problema però è radicato ancora di più alla base. Si è messo ora all’attenzione del consumatore che manca la totale tracciabilità delle carni con cui vengono confezionati questi Frankenstein della cucina moderna.
Francia, Olanda, Germania ma anche Romania e sono solo dei satelliti europei in uno smercio di carne che può avere origine fino in Turchia. Qui si allevano suini a costo 0 in associazione a pollai che con le loro deiezioni e i loro scarti vettovagliano a caduta le porcilaie, inoltre questo già sano e delizioso pastone è arricchito con scarti di caserme e ospedali, non c’è bisogno che spieghi al pubblico le terribili conseguenze a cui può portare l’associazione tra un patogeno animale e uno umano.

È un incubo se si pensa al sogno del beato porco che grufola tra le ghiande e il querceto.
Lisa Ferrarini, consigliere delegato dell’omonima azienda agroalimentare, presidente di Assica (Associazione industriali delle carni e dei salumi) nonché vicepresidente di Confindustria, ha dichiarato per mezzo della trasmissione televisiva “La gabbia” che non ha l’obbligo, a livello europeo, di indicare la tracciabilità delle carni in etichetta. Finita la festa, gabbato lo santo, come si usa dire.

Ed è purtroppo vero se si considera ciò che tutela il regolamento CEE 116/2011 (vedi editoriale “Gli allergeni nel piatto” dell’1/12/2014) ossia il luogo in cui è avvenuta l’ultima fase di lavorazione dei prodotti, eccezion fatta per quelli a marchio Dop in cui tutti gli step di filiera vengono realizzati in regioni italiane, nel caso specifico del Prosciutto crudo di Parma e del San Daniele, e addirittura in zone geograficamente ben delimitate.

Insomma si mette la qualità in vetrina, ma quello che batte cassa alla fine è la spazzatura, perché i poveri comprano il cotto e rubano il crudo.
C’è qualcosa da cambiare, le leggi ma anche la testa del consumatore che dovrebbe indirizzare il portafogli verso prodotti in cui perlomeno si indichi la tracciabilità dalla nascita alla macellazione, tutti sono in liberi in fondo di mangiare prosciutto turco ma che almeno lo sappiano!
Devono sapere anche che ogni obolo dato ad aziende poco trasparenti è sottratto ai nostri già scannati allevatori locali. Abbiamo forse perso la bussola della tipicità? Spero proprio di no.
G. Camedda


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Redazione

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